Ius Café – Il nuovo abuso d’ufficio

Con il d.l. Semplificazioni del 16 luglio 2020, il Governo ha inteso promuovere la ripresa economica del Paese tramite lo “snellimento” dei ferraginosi meccanismi della macchina pubblica e l’alleggerimento delle responsabilità dei pubblici funzionari esortandoli a decidere e fare (in ultima analisi, spendere), evitando l’inerzia. La visione che ha animato il legislatore della riforma si può sintetizzare con l’equazione: meno responsabilità = più spesa = più ripresa economica. Siamo di fronte ad una svolta?

Un podcast dell’Avv. Giovanna Palmieri.

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Versione testuale


Il nuovo abuso d’ufficio. La riforma pone fine all’era della “paura della firma”? Quali sono le condotte dei pubblici funzionari non più punibili?

Con il D.L. Semplificazioni del 16 luglio 2020, il Governo ha inteso promuovere la ripresa economica del Paese tramite lo “snellimento” dei ferraginosi meccanismi della macchina pubblica e l’alleggerimento delle responsabilità dei pubblici funzionari esortandoli a decidere e fare (in ultima analisi, spendere), evitando l’inerzia. La visione che ha animato il legislatore della riforma si può sintetizzare con l’equazione: meno responsabilità = più spesa = più ripresa economica.

Posto che l’abuso di ufficio e la responsabilità erariale hanno un effetto frenante sull’efficienza della pubblica amministrazione che genera immobilismo con ripercussioni pregiudizievoli per la competitività del Paese, l’intervento normativo in oggetto si è proposto di fronteggiare il fenomeno anche noto come “paura della firma” – ossia la ritrosia dei funzionari pubblici ad assumere decisioni per timore di subire conseguenze negative a proprio carico – e di agevolare in ogni modo la ripresa economica dopo il blocco delle attività produttive.

La responsabilità erariale

Oltre alla modifica della responsabilità penale dei funzionari pubblici, infatti, la riforma si incentra anche sulla responsabilità erariale (di cui i funzionari rispondono innanzi la Corte dei Conti) che subisce importanti modifiche. L’art. 21 del d.l. 76 del 2020 incide direttamente sull’art. 1 della l. 20/1994 il quale limitava la responsabilità erariale ai “fatti o omissioni commessi con colpa grave o dolo” e che, oggi, subisce due rilevanti modifiche. La prima riguarda l’onere della prova del dolo: oggi, ai fini dell’imputabilità del danno cagionato, la Procura contabile dovrà riuscire a dimostrare “la volontà dell’evento dannoso”, con conseguente allargamento delle maglie di irresponsabilità per i pubblici funzionari a processo. Il secondo intervento riguarda la previsione della singolare ipotesi, dall’efficacia temporale predeterminata in circa un anno (“limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021”), in cui il pubblico ufficiale non è chiamato a rispondere per colpa grave nel caso di “condotto attiva”. La limitazione di responsabilità non si applica, invece, per i danni cagionati da omissioni o inerzia del soggetto agente; pertanto, nel caso di inerzia o di omissione si continuerà a rispondere sia a titolo di dolo che di colpa grave. Il singolare intervento è animato da un evidente favore del legislatore – riconosciuto solo per “questo” determinato periodo di tempo – nei confronti del pubblico ufficiale che fa, che esercita la propria funzione e, in questo momento di pandemia particolarmente complesso anche sul versante economico ed in funzione di rilancio, evidenzia un benevolo occhio di riguardo in favore di quel pubblico funzionario che, in definitiva, spende.

La responsabilità penale

Per il versante penale, la modifica dell’abuso d’ufficio costituisce senza dubbio un avvenimento di una certa importanza.

Al netto delle considerazioni generali, la ratio dell’intervento riformatore dell’abuso d’ufficio parte dalle tradizionali carenze strutturali che hanno caratterizzato la fattispecie, accusata da sempre di scarsa tipicità e determinatezza. Tale ontologica incertezza interpretativa della fattispecie si è tradotta in incertezza operativa da parte sia del pubblico funzionario – all’atto della scelta del comportamento da tenere – e sia del Magistrato e del Pubblico Ministero durante la fase delle indagini preliminari. Ne è la prova – statisticamente – la grande differenza tra i procedimenti penali avviati e le scarse sentenze di condanna: metà dei procedimenti penali per abuso d’ufficio si chiude, infatti, con una sentenza di assoluzione già in primo grado. Negli ultimi trent’anni l’art. 323 c.p. è stato oggetto di tre importanti modifiche: con legge n. 86 del 1990, legge n. 234 del 1997 e, da ultimo, con d.l. 76 del 2020, oltre a subire l’innalzamento di pena edittale (da uno a quattro anni, in luogo della pena da sei mesi a tre anni) operata dalla cd. legge Severino, l. 190/2012.

Il rovesciamento di prospettiva

Dopo un atteggiamento intransigente verso il funzionario infedele, nel 2020 il legislatore italiano ha tentato una sorta di rivoluzione copernicana: la nuova versione della norma sull’abuso di ufficio restringe la sfera di intervento della legge penale sull’azione amministrativa.

Ricordiamo che la fattispecie dell’abuso d’ufficio, prima della riforma del 2020, contemplava due diverse modalità della condotta. L’abuso penalmente rilevante poteva infatti essere commesso, alternativamente in “violazione di norme di legge o di regolamento” oppure “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.

Il d.l. Semplificazioni ha ridimensionato la portata della fattispecie incriminatrice dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p., vediamo come.

La riforma del 2020 ha inciso solo sulla prima delle modalità della condotta: l’abuso penalmente rilevante non è più quello commesso “in violazione di norme di legge o di regolamento”, bensì quello realizzato “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Dunque, oggi non è più penalmente rilevante la violazione, da parte del pubblico funzionario, delle “norme di legge o di regolamento” ma la sola inosservanza “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”. Dunque, la parziale abolitio criminis riguarda unicamente i fatti commessi “in violazione di norme di legge o di regolamento” e non interessa i fatti riconducibili alla omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.

I fatti non più punibili

Non sono più punibili, in particolare, i fatti realizzati attraverso:

  • la violazione di norme di regolamento;
  • la violazione di norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse;
  • la violazione di regole di condotta, anche di fonte primaria, che lascino residuare margini di discrezionalità.

Il legislatore letteralmente sembrerebbe voler dire che deve trattarsi di una regola “legale”, che attiene alla c.d. attività vincolata della P.A.. Nell’esercizio del suo potere, all’agente pubblico non sarebbe perciò lasciato alcun margine di apprezzamento, predeterminando la regola, in tutti i suoi aspetti, le modalità di azione della pubblica amministrazione nel perseguimento dell’interesse pubblico.

Secondo la disciplina generale, l’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2, comma 2 c.p., e dell’art. 673 c.p.p., comporta l’archiviazione dei procedimenti in fase di indagine, il proscioglimento nei processi in corso e la revoca delle sentenze di condanna passate in giudicato, con conseguente cessazione dell’esecuzione delle pene, principali ed accessorie, e degli effetti penali della condanna.

Ovviamente ciò al verificarsi di alcune condizioni: che il fatto concreto, oggetto del giudizio, non sia riconducibile alla nuova e più circoscritta ipotesi di abuso d’ufficio penalmente rilevante; che non si rientri nell’ipotesi di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (condotta non attinta dalla modifica normativa); e in ultimo, che il fatto contestato prima della riforma del 2020 non sia riconducibile a una fattispecie diversa dall’abuso d’ufficio e già prevista dalla legge. Rispetto a quest’ultima verifica assume rilievo la clausola di sussidiarietà con la quale continua ad aprirsi l’art. 323 c.p.  (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”).

Considerazioni sul nuovo abuso d’ufficio

Dunque, come è evidente, la nuova formulazione della fattispecie ne restringe l’ambito di applicabilità, comportando in via di principio una abolitio criminis parziale, in relazione ai fatti di abuso d’ufficio commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 76/2020 e non più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p.. L’abuso d’ufficio penalmente rilevante oggi non può consistere più nella violazione del generico dovere di imparzialità o di gestione efficiente della p.a., orientata al buon andamento: è necessaria la violazione di un’espressa, specifica regola di condotta, che, per di più, sia prevista da una fonte primaria che non lasci residuare margini di discrezionalità.

Pertanto, si esclude che il reato in questione sia configurabile in caso di trasgressione di norme di rango secondario, regolamentare o subprimario, ovvero finanche in ipotesi di norme di rango primario non vincolanti poiché, in ogni caso, si richiede che dalla norma violata non debbano residuare “margini di discrezionalità” in capo al soggetto agente.  

Sennonché – come osserva attenta dottrina – l’eliminazione dal novero delle fonti capaci di azionare l’abuso d’ufficio dei regolamenti e la contemporanea previsione secondo cui le norme di rango primario sono idonee ad innescare la criminalizzazione ma solo se disciplinano espressamente la condotta del p.u. o dell’i.p.s. senza lasciargli margini di discrezionalità, sembrano quasi determinare una depenalizzazione di fatto dell’abuso d’ufficio.

Invero, se da un lato il riferimento a “specifiche regole di condotta espressamente previste” sembra inteso ad escludere che possano avere rilievo penale violazioni di principi generalissimi (come quelli di buon andamento ed imparzialità ex art. 97 Cost.) dall’altro lato, l’eliminazione del rimando ai “regolamenti” rischia di sottrarre a ogni possibile intervento del giudice penale violazioni, anche gravi, proprio di quelle disposizioni in cui si rivengono normalmente le regole di condotta “specifiche” ed “espresse” che presiedono all’esercizio dei pubblici poteri, alla luce dell’ampio processo di delegificazione in atto da tempo nel nostro ordinamento. Ad analoghe conclusioni si perviene ove si prenda in considerazione l’ulteriore neo-requisito del reato di abuso d’ufficio, concernente il carattere vincolante delle dette regole di condotta, tali cioè da non lasciare margini di discrezionalità all’agente: la discrezionalità di fatto permea tutti gli ambiti di esercizio del potere amministrativo che non sono mai davvero vincolati dal momento che ogni norma implica sempre un margine di discrezionalità applicativa o anche solo interpretativa.

Pertanto, si è notevolmente ristretto l’ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d’ufficio, con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p., trattandosi di (parziale) abolitio criminis in relazione alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della riforma.

Alla luce di quanto sin qui registrato, c’è chi in dottrina ha ritenuto che sarebbe stato probabilmente preferibile immaginare una abrogazione secca dell’art. 323 c.p., non mancando – nel ricco panorama dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione – altre norme incriminatrici, più specifiche e severe, che avrebbero potuto punire singole condotte. Tali proposte, tuttavia, si scontrano con chi, dall’altro lato, ritiene non praticabile la proposta abrogazione della fattispecie e sostiene come necessaria la sopravvivenza di cui all’art. 323 c.p.. L’integrale sostituzione dell’abuso di ufficio quale fattispecie penalmente rilevante con strumenti non penali (strumenti amministrativi e di soft law) – si sostiene – non sembra restituire una risposta soddisfacente al disvalore penale che spesso si ricollega all’abuso di ufficio.

Avv. Giovanna Palmieri

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